
Il ricco giacimento di travertino romano – lapis tiburtinus – interessa il territorio pianeggiante dei comuni di Guidonia Montecelio e Tivoli, a pochi chilometri da Roma. Ha consentito, fin dal III secolo a.C., la
coltivazione di numerose cave a cielo aperto che producono un materiale calcareo, particolarmente poroso, con colori dal bianco al crema, talvolta con sfumature gialle o rosse, e diverse variazioni di marrone tipo legno di \”noce\”.
Le caratteristiche fisiche sono particolarmente favorevoli all’impiego del materiale anche nelle condizioni
ambientali e climatiche più avverse e questo importante vantaggio spiega, oltre al pregio ornamentale, la
diffusione raggiunta in tutti i continenti. Il Travertino Romano risulta una pietra ideale per le tutte le
realizzazioni, dai rivestimenti di facciate alle pavimentazioni d’interni, dai progetti di urbanizzazione
all’arredo urbano per finire con i monumenti cimiteriali, sculture e oggettistica.

E’ stato impiegato in ogni tempo per la costruzione di mirabili edifici e monumenti: in epoca romana il
Colosseo, il Teatro Marcello, gli archi trionfali e innumerevoli templi; in epoca rinascimentale le basiliche di
San Pietro e Santa Maria Maggiore, le fontane del Bernini, le chiese barocche e palazzi patrizi; in epoca
moderna lo Stadio Olimpico, il Palazzo della Civiltà e del Lavoro all’EUR e la recente Moschea di Roma.
All’estero, a partire dagli anni cinquanta, il flusso delle esportazioni si è continuamente intensificato fino ad assorbire i tre quarti della produzione.Le realizzazioni più significative riguardano progetti architettonici molto noti nei rispettivi paesi che rendono onore sia al prodotto \”travertino romano\” che alle capacità professionali delle maestranze e delle aziende che lo hanno fornito. Il termine “travertino” deriva dal latino “lapis tiburtinus”, la “pietra di Tivoli”, così definita perché estratta lungo l’Aniene alle pendici dei monti di Tivoli. La grande e antica cava de “Il Barco”, utilizzata sin dal II secolo a.C. dai romani, si estendeva lungo l’ultimo tratto della via Tiburtina subito prima di ponte Lucano, quindi nel cuore dell’ager Tiburtinus. La primitiva cava venne impiantata al XV miglio (Km. 24) della via Tiburtina in un’area pianeggiante fra l’attuale località Albuccione e ponte Lucano che era nota nel Medioevo con il nome di campus Maior, o Tiburtinus. L’area di scavo antica, posta a sud-est di questo grande affioramento, fu in attività fino all’epoca Tardo-antica.
Già il geografo greco Strabone (58 a.C. – 23 d.C. ca.), che a lungo aveva soggiornato a Roma, ricordava (Libro V) che era assai facile “per via di terra e di fiume” il trasporto in questa città del lapis tiburtinus. A
cominciare dal periodo che va dal II al I secolo a.C., il travertino divenne il materiale privilegiato
dell’architettura romana antica. In quel generale e affascinante processo storico attraverso il quale a Roma
si dà luogo, per dirla con Vitruvio, ad una “tuscanicorum et graecorum operum comunem ratiocinationem” della quale emergono i modi architettonici specificamente romani, anche l’impiego del travertino deve aver svolto una funzione attivamente propulsiva. Nell’antica Roma sotto l’Imperatore Augusto il travertino romano fu elevato al rango di materiale \”nobile\”, e fece la sua comparsa nelle parti più importanti ed appariscenti del Teatro di Marcello (13 a.C.- 11 a.C.), nella porta urbana sull’Esquilino, detta impropriamente \”Arco di Galliano\”, anche se nei templi veniva ancora usato il marmo.

Dalla prima metà del I secolo a.C. il travertino fu usato anche per realizzare lavori in cui in passato si utilizzava il marmo. Si capì che una colonna in travertino non avrebbe mai potuto avvicinarsi alla perfezione nelle scanalature di una marmorea, poiché il travertino è bucherellato e quasi spugnoso. Quindi occorreva fermarsi ad uno stato di lavorazione meno \”completo\” per puntare sull’effetto complessivo e meno sui particolari. Il diffondersi di un nuovo gusto per un’architettura basata su elementi lavorati fino a stadi “pre-finali” si sviluppò soprattutto nella costruzione di opere realizzate tra l’età di Tiberio e quella di Nerone (sotto la dinastia Giulia-Claudia). La massima applicazione del lapis tiburtinus fu la realizzazione dell’Anfiteatro Flavio, meglio noto come il Colosseo, edificio che rappresenta la massima espressione dell’architettura romana, dove forme e materiali esprimono chiaramente i caratteri dello Stato romano, che si ritrovano nei palazzi palatini, nella villa dell’Imperatore Adriano, e nelle Terme. Successivamente alla costruzione del Colosseo, l’architettura imperiale iniziò ad accantonare un po’ il travertino preferendo altri materiali più adatti con la loro cromaticità alla realizzazione di architetture sempre più fastose. Le cave caddero in disuso nel Medioevo perché si diffuse la consuetudine di riutilizzare reperti, colonne ecc. degli antichi edifici romani che vennero letteralmente spogliati e distrutti. Il travertino, che li ricopriva, era particolarmente adatto ad essere staccato per fare calce con cui costruire. Intere generazioni di effossores lapidum (scavatori di pietre) costituiti da mastri muratori, lapicidi, calciaioli riuscirono a sbarcare il lunario per secoli distruggendo gli edifici romani e ricostruendo. Tale pratica andò avanti anche sotto l’Umanesimo in cui veniva esaltato il mondo classico; vennero disegnati e copiati i monumenti romani che tuttavia continuarono ad essere spogliati dei loro materiali.

Dopo la crescita della popolazione registrata a cavallo tra l’800 e il ’900, dai dati del Censimento del 1921 si registra la nascita di nuovi nuclei abitativi nel territorio di Montecelio fra i quali “Le Sprete”, in prossimità delle cave di travertino situate in località “Le Fosse”. Per molto tempo le cave erano rimaste inattive e la loro ripresa coincise con lo sviluppo di Roma capitale. Fu proprio agli inizi del 1871 che, a seguito dell’inondazione, vennero commissionati i muraglioni ai lati del Tevere, utilizzando –come tradizione- la pietra di Roma, ossia il travertino. Il trasporto, però, presentava delle difficoltà. Le cave funzionanti erano nelle vicinanze delle località “Le Caprine”, “Le Fosse” e Villa Adriana. Nel 1883 un’indagine del Pellati ci fornisce un quadro esauriente delle cave operanti nell’area. A Tivoli erano individuabili quattro aree di escavazione: “ Le Fosse” dove erano occupati 75 addetti per sei mesi l’anno, da ottobre a aprile, dato il rischio della malaria. Il trasporto verso Roma avveniva mediante grandi carri trainati da buoi o bufali, ma uno dei proprietari in concomitanza con l’apertura della tramvia, aveva installato una segheria presso la stazione di Bagni, ove il materiale veniva ridotto in lastre e spedito a Roma per ferrovia; Villa Adriana; “ Le Caprine”, unica località di escavazione ricadente nel territorio di Montecelio. Vi erano occupati 50 addetti, per lo più sanmarinesi, che anche qui lavoravano da ottobre a aprile; “ Il Barco”, collocata nel comune di Tivoli. Solo verso la fine dell’Ottocento è stata avviata la moderna estrazione su scala industriale che ha investito però una zona assai più vasta, comprendente le attuali località di Bagni di Tivoli, Villalba e Villanova. Infatti al 1879 risale la costruzione del tramway a vapore Roma-Tivoli, grazie al quale i blocchi di travertino venivano avviati con vagoni su un apposito binario alla stazione di Bagni. All’inizio del ’900, con l’applicazione del moderno sistema di abbattimento del banco a mezzo del filo elicoidale mosso da pulegge e con l’uso della decauville, anche i lenti “codettoni” vennero abbandonati e con essi scomparve il sistema antico di trasporto4. In effetti, dall’antichità alla fine del Settecento non vi erano stati sostanziali mutamenti nella tecnica estrattiva, si procedeva basandosi sul lavoro manuale e su semplici attrezzi di lavoro, come scalpelli, mazze, leve, slitte ed argani. Come ha scritto lo storico Celestino Piccolini, descrivendo le cave della zona, “Non molto lontana da quella dei tufi, sebbene più vicina a noi, è l’epoca della formazione dei travertini, ove pure i cavatori trovano di continuo impronte di vegetali e fossili di animali […]. Non è difficile conoscerne la ragione. La zona dei travertini era una conca lacustre, le cui acque, depositando il carbonato di calce [calcio, ndc], formavano il primo banco del fondo. A causa di alluvioni, le acque si intorbidivano per le piene, che trasportavan seco avanzi di animali e vegetali, i quali, avvenuta la calma, affondavano in una con le sabbie sul banco già formato”. La grande innovazione nella coltivazione del travertino avvenne con l’utilizzo del filo elicoidale, che consisteva in una treccia di fili di acciaio che, scorrendo su due volani applicati a macchinette perforanti, segavano il travertino per abrasione con l’ausilio della sabbia miscelata con acqua. Tale innovazione consentì il taglio di faldature di dimensioni più grandi rispetto al passato, con altezze fio ad 8 metri e lunghezze anche superiori ai 15 metri. L’altra importante innovazione avvenne intorno al 1920 con la diffusione dei mezzi cingolati per la movimentazione dei blocchi. Questo passaggio iniziò a trasformare le cave, che erano quasi tutte a pozzo, in cava a fossa per via della necessità di creare piste e strade di movimentazione dei mezzi.